La Sindone e l’iconografia cristiana – parte prima

Se la Sindone è, come i meno ideologizzati sono disposti ad ammettere, un’opera impossibile da produrre nel Medio Evo e impossibile da produrre con tecnologie umane (anche moderne) conosciute, e se è appartenuta davvero ad un uomo di nome Gesù detto “il Cristo”, dal quale discende la fede cristiana, è necessario affermare che possa aver avuto una qualche influenza sull’arte nei secoli, a livello testuale o di immagine.

Tuttavia, ad onor del vero, questo può essere corretto da affermare solo in ambito prettamente cristiano, ma non è detto che lo sia in ambito pagano: quasi certamente erano infatti pagane quelle botteghe artistiche chiamate a rappresentare Gesù soprattutto dopo l’editto di Costantino che concedeva libertà di culto ai cristiani. Prima del 313, le uniche raffigurazioni cristiane conosciute datano al più presto al II secolo e si trovano in ambienti ipogei come le catacombe, lontane quindi da occhi indiscreti e spesso persecutori.

È necessaria in ogni caso un’opera certosina attraverso le testimonianze dei secoli per sapere se, prima che esplodesse la sua fama a livello internazionale, la Sindone era conosciuta, magari attraverso altri nomi, anche prima di questo famoso XIV secolo. Le opere a tal proposito sono tante, anche perché prima del C14 era comunque un fatto noto che la storia certa del Telo così come oggi noto comincia nel XIV secolo: fondamentali rimangono gli studi di P. Savio, A.M. Dubarle e in misura minore P. Vignon. Ultimamente però, anche a seguito di alcune forzate interpretazioni di documenti antichi, c’è stata una violenta (scientificamente parlando, s’intende) risposta da parte di alcuni studiosi che dall’oggi al domani si sono inventati grandi esperti di storia sindonica, oppure (peggio ancora), si sono inventati studiosi, punto. È necessario a mio avviso rimettere un po’ di ordine nelle varie questioni, alla luce delle più recenti conoscenze storico-scientifiche, e nulla di meglio che cominciare con la vexata quaestio del Mandylion di Edessa, introdotta per la prima volta in modo “pesante” da Ian Wilson.

Il Mandylion di Edessa e la Sindone di Torino: influenze, concordanze e strani rivoli della storia

La storia del Mandylion di Edessa risale alla guarigione di Abgar V re della città, che nell’anno 31 d.C. secondo le fonti (altre ricostruzioni al 29 d.C.) sarebbe guarito in modo miracoloso grazie a Gesù, accogliendo il suo culto nel regno. Può essere così riassunta, in ordine cronologico:

  • >;315: Prima attestazione in Eusebio di Cesarea, che compone la sua Historia Ecclesiastica intorno al 320 d.C.: si parla di uno scambio di lettere tra Gesù ed Abgar ma non si fa voce di un ritratto del Cristo. Abgar riconosce però Addai per lo splendore del suo volto. Eusebio afferma di riportare la storia dopo averla letta negli archivi documentali della città
  • >;429: Seconda attestazione nella Dottrina di Addai, che menziona un ritratto realizzato da Anania e dice che la risposta di Gesù fu solo orale, forse come risposta alle polemiche generate da scritti di Cristo che erano ritenuti inventati sia da Girolamo che da Agostino (la presenza di Eleutheropolis ne è chiaro indizio: Baetogabra sarà così chiamata solo sotto Settimio Severo). Questo testo dunque è databile nella seconda metà del V secolo: questa datazione, con altre motivazioni, è ritenuta la più probabile anche da altri studiosi, almeno per la sua forma finale. Si ritiene comunemente (Lipsius, Erbetta, Moraldi, etc.) che la Dottrina si basi su Eusebio in aggiunta agli stessi documenti da lui letti.
  • VI secolo: Terza attestazione in una nuova versione della Dottrina di Addai chiamata Atti di Taddeo, nella quale il discepolo Addai viene confuso con l’apostolo Giuda Taddeo: qui, Anania non riesce a dipingere lo splendore del volto di Cristo il quale gli fa dono della sua immagine impressa su un panno dopo essersi asciugato il volto, il Mandylion che in Evagrio diventerà acheiropoiètos al contatto col quale Abgar viene risanato.

È nota una certa ostilità di Eusebio verso le rappresentazioni di Gesù (pur citando la statua di Cristo a Paneas in Palestina, Hist. Eccl. 7.18, si rifiuta categoricamente di fornire un ritratto di Cristo alla figlia dell’imperatore): l’assenza di questo particolare dunque non è prova che tale immagine sia stata creata/aggiunta solo posteriormente. L’argomento ex silentio, come già un autore del calibro di Dobschütz faceva notare, è “malfamato” e va maneggiato sempre con cura, corroborato e contestato al tempo stesso: qualunque conclusione se ne tragga, non è più illogica di altre. Un vecchio articolo di S. Runciman provava ad ipotizzare, in modo congetturale, che l’inserimento nella leggenda dell’immagine di Cristo fu propedeutico nello scontro tra clero calcedoniano filoimperiale a favore delle immagini di Gesù e clero monofisita, contrario, in quella che era già un principio di lotta iconoclasta. Con questa storia inoltre, i cristiani di Edessa si sarebbero dati addirittura un’origine che discendeva direttamente dal Salvatore, contro chi li accusava di tendenze eretiche: a parere il mio, la ricostruzione di Runciman è un tentativo di voler individuare a tutti i costi una origine “storica” alla costruzione di queste leggende.

Come Eusebio, anche la pellegrina Egeria, alla fine del IV secolo, non riporta l’esistenza del ritratto ma conosce il fulgore del volto della statua di Abgar, segno della benedizione divina ricevuta. Il fulgore di Abgar, già di Addai, nelle tradizioni successive sarebbe diventato il fulgore del volto di Gesù, trasformando l’iniziale ritratto su tavola in un acheropito su tela/lino. Nel corso del VI-VII secolo il Mandylion diventa palladio della città di Edessa, probabilmente per merito del clero edesseno: appena 7 anni dopo la guerra, nel 551, lo storico bizantino Procopio di Cesarea nel suo De Bello Persico descrive da esperto militare come gli edesseni abbiano messo in fuga i Persiani attraverso un cunicolo per mezzo del fuoco, in modo unicamente tecnico. Evagrio lo Scolastico nel suo Historia ecclesiastica descrive invece la storia di come l’immagine di Edessa fosse stata ritrovata all’interno di una nicchia, di cui si era persa memoria, di fronte alla quale ardeva da secoli una candela/lampada (il cui olio rimanente è usato per aspergere i Persiani che vengono consumati così dal fuoco, secondo una versione del racconto di Costantino VI, che contiene in sé la traccia storica dell’effettivo stratagemma tecnico usato per battere gli assalitori): da qui prende origine anche il keramidion, un mattone che ricevette l’immagine del Salvatore per contatto.

Il volto santo di Edessa fu tenuto in debita considerazione anche dai musulmani che conquistarono la città nel 638 e persino dai monofisiti, come detto tradizionalmente ostili al culto delle immagini. Tra vicende varie e vicissitudini non sempre ben riconoscibili, il Volto di Edessa sarebbe giunto a Roma dove è tutt’oggi custodito nei Palazzi Vaticani, già per secoli presso il monastero romano delle S. Clarisse a S. Silvestro in Capite. Tale dipinto è considerato da Hans Belting, uno dei massimi studiosi di immagini sacre, la più antica icona di Cristo sopravvissuta, “la cui figura originale è tramandata in modo completo e intatto”, creata quasi certamente ad Edessa e databile non oltre il VI secolo. La sua origine, secondo gli studi scientifici condotti sul telo che ospita il dipinto, sarebbe individuabile nell’ambiente semitico della Mesopotamia settentrionale, e desta una certa impressione la somiglianza di molte linee del volto (soprattutto il particolare della pupilla negli occhi) con quanto visibile sulle pitture conservate presso Dura-Europos (vd immagine sottostante), uno dei più antichi siti certamente cristiani conosciuti al mondo, dove è presente una chiesa ed alcune pitture che costituerebbero al tempo stesso le prime rappresentazioni su parete di Gesù in assoluto, risalenti a non oltre il 235 d.C. L’offerente di Dura-Europos è per altro databile al I sec. d.C. (i lineamenti della pittura permangono in ogni caso fino al III secolo) e, scrive un grande studioso come C. Bertelli, esso è lontano sia dalle convenzioni bizantine che dalla tradizione ellenistica, con una “non eludibile” (Sartori p. 402) qualità semitica del volto. L’enorme intervallo di tempo che secondo la Sartori esisterebbe tra le pitture di Dura-Europos e l’immagine edessena che sarebbe databile al VI secolo e che potrebbe costituire un qualche ostaculum in realtà è postulato soltanto dagli storici moderni (lo stesso Bertelli, anche sulla scorta del “mosaico del tripode” rinvenuto proprio ad Edessa, lo fa risalire al III secolo): è ovvio allora che il ritratto non può che risalire a questo periodo (III secolo appunto), quando Edessa si cristianizza e si formano i primi lineamenti di quanto confluirà nelle successive leggende (vd oltre). Nell’orante si osserva inoltre l’interessante particolare della barba bipartita, mentre nel mosaico del tripode, quanto rimane dell’uomo barbato fornisce un chiaro indizio di un volto dalla tipologia triangolare, a differenza degli altri personaggi: il taglio degli occhi è in ogni caso molto simile.

Mandylion di Edessa, mosaico del tripode di Edessa, orante di Dura Europos

Fin qui, è sostanzialmente quanto appare nella letteratura specialistica, a cominciare dagli articoli di review molto completi proposti uno in inglese da Sebastian Brock (il quale bolla pubblicamente come pacchianamente antistorica, come propaganda tendenziosa l’ipotesi wilsoniana del Mandylion=Sindone) e l’altro in italiano (uno dei pochi davvero completi nella nostra lingua) per merito di Orietta Sartori, che trovate nella bibliografia in fondo. Qui vale notare una certa differenza di stile: solo gli ideologizzati nei loro articoli scientifici usano termini come “propaganda”: propaganda è un termine da bar dello sport, da blog, non certo da testo scientifico, tanto è vero che la Sartori si limita a fare una breve menzione in nota all’ipotesi di Wilson, senza recepirla all’interno del suo studio. Ma tant’è, il prurito che genera certi argomenti in talune persone non merita ulteriore attenzione.

Ancora oggi, il Mandylion è l’unico ritratto considerato ufficiale di Gesù sia dalla Chiesa Ortodossa che da quella Cattolica.

Nel 1204 se ne perdono le tracce a Costantinopoli dopo il sacco crociato: il Mandylion sembra riapparire a Roma nel 1208 e in questa città è localizzato dallo Speculum historiale VIII c. 29 di Vincenzo di Beauvais Rabban Bar Sauma verso la fine del XIII secolo e da Moses of Mardin nel 1555, anno della pubblicazione della Peshitta.

Non occupandomi di testi siriaci, non è mio compito leggere tutta la trattatistica scientifica che è fin troppo vasta: dagli articoli a cui ho avuto accesso mi è sembrato tuttavia che scarsa consistenza abbia lo studio dell’origine di questa immagine edessena. Perché nell’arco di circa 150 anni si aggiungono elementi alla storia comune come un ritratto che poi diventa acheropita? Ridurre tutto ad una invenzione del clero edesseno mi sembra riduttivo: anche perché l’esistenza dell’immagine precede di molti decenni il sacco del 544, quindi il ruolo del clero è stato eventualmente soltanto quello di attribuire ad una immagine di Cristo la vittoria in battaglia. Sappiamo per certo che le immagini di Edessa erano più di una: alla metà del X secolo, più o meno negli anni in cui il Mandylion viene trasferito a Costantinopoli, Agapio di Mabbug scrive Kitab al ‘Unwan parlando di un ritratto su tavoletta quadrata (Agapio, vescovo cristiano, difficilmente sarebbe stato contrario ad elementi divini del ritratto del Cristo); nel Chronicon ad annum Christi 1234 pertinens, che risalirebbe nella sua fonte al tardo VIII secolo (Dionisio di Tel-Mahrê o forse le perdute Cronache di Teofilo di Edessa, cristiano maronita: cfr. Drijvers p. 27), si cita un ritratto dipinto su lino, ovvero su un asciugamano, citato in alcuni manoscritti come mandil, la terza è il detto keramidion. È interessante come Dubarle aggiunga un particolare sfuggito anche alla dura reprimenda di Brock: le Cronache di Michele il Siro avrebbero tra le sue fonti un testo, lo Pseudo-Zaccaria, risalente al 569, il quale essendo conservato solo in frammenti manca della parte che riguarda l’assedio di Edessa relativamente all’eventuale ruolo avuto dall’immagine miracolosa, ma trattandosi di un testo che nel libro XII riporta il racconto dell’immagine acheropita di Kamulia, si evince che se ne avesse avuto notizia, questo Pseudo ne avrebbe menzionato l’esistenza. Come nel caso di Procopio, il quale non è certo contrario a possibili eventi “soprannaturali”, si può concludere alla maniera di Dubarle che questo testimonia soltanto che negli anni immediatamente successivi all’assedio non si era ancora formulata la convinzione del ruolo di palladio dell’immagine, a conferma di quanto si diceva prima. È possibile che, come l’acheiropoiètos da Kamulia era palladio di Costantinopoli, per emulazione politica Edessa abbia assunto ad acheiropoiètos e palladio la sua immagine del Salvatore, così in Evagrio: fa strano notare come nei secoli successivi la “fortuna” dell’immagine edessena sarà travolgente, se paragonata a quella dell’immagine kamuliana. In questo quadro, interviene la notazione di Ian Wilson: egli nota che il testo degli Atti di Taddeo usa il termine assolutamente raro di tetradiplon, radice greca di quattro, così come la citata Storia Universale di Agapio descrive una tavola quadrata con il termine mrb radice semitica di quattro: si può pensare ad un modello siriaco comune al quale si rifanno i due testi, nel quale Agapio è molto vicino alla più antica Dottrina di Addai, ma lo stesso Agapio non menziona in alcun modo la predicazione del discepolo nella città (nonostante scriva quattro secoli dopo, quando oramai la storia/leggenda aveva varcato i confini nazionali). Dunque, Agapio ha avuto accesso ad una fonte forse ancora più antica, magari vicina ad Eusebio (che scrive in un tempo in cui non era ancora stata formulata la connessione tra immagine ed epistole), dove il ritratto di Gesù è su tavola, legato alla città di Edessa ma non ad Addai? Dubarle nota questo, ma non Brock né la Sartori: il primo si limita a farne un accennino in relazione all’immagine su tavola, la seconda non mi risulta lo citi neanche. Eppure, non mi pare secondario come aspetto. La tavola citata da Agapio sarebbe l’effettivo originale del Volto di Edessa: la Sartori ipotizza che la tavola di cipresso è indizio che la tavola di Roma è copia magari diretta dell’originale (databile forse intorno al X secolo: notevole una certa affinità metrica ipotizzata da Belting 2001 con il noto trittico di re Abgar del Sinai, databile appunto al X secolo, per il Volto di Genova, ma identico paragone si può fare sul Volto di Roma), essendo il cipresso un legno difficile da lavorare. Le analisi scientifiche hanno sottolineato che la tavola è stata sostituita in un qualche tempo assolutamente non precisabile (comunque posteriore alla realizzazione del dipinto) ma nel quale la valenza simbolica del cipresso (leggasi già la Bibbia) doveva ancora essere ben presente. È possibile che l’originale supporto per l’immagine edessena avesse proprio la funzione di collegare il supporto reggente l’immagine del Dio Incarnato all’albero di cipresso che nella Genesi sorregge quanto di animato nel mondo. Un collegamento che si perde nella copia genovese del Mandylion e che dunque farebbe risalire quella di Roma ad un tempo molto antico. H.L. Kessler è di diverso avviso (p. 91): sembrerebbe datarlo ad un periodo posteriore, ipotizzandolo come realizzato in sostituzione dell’icona genovese che nel XIV secolo viene inserita in un’altra cornice: prova di ciò sarebbe costituita dal fatto che la lamina d’argento della copia romana incorniciava in precedenza la copia della città della Lanterna. L’ipotesi della Sartori mi pare tuttavia più convincente.

Nel divagare, siamo andati oltre: un primo riassunto della linea evolutiva dice nessuna immagine (o forse immagine taciuta, non importante ai fini del racconto che si incentra sulle lettere) –>; dipinto –>; acheropito, e ancora di più dice tavola (quadrata?) di legno –>; mandil/shushepa/sindon. Secondo A. Cameron è tra VI e VIII secolo che «in syriac sources the aceiropoietos image turns into an image on cloth» (p. 39)

  • mandil: usato ad es. in Eutychius, Michele il Siro, Bar ‘Ebroyo, Peshitta
  • shushepa: usato ad es. nelle Cronache di anonimo del 1234
  • sindon: usato ad es. negli Atti di Taddeo, Acta Sancti Maris, nel manoscritto Paris ms lat. 2688

A questo livello della trattazione diventa utile uno studio recentemente condotto da Ilaria Ramelli sul sostrato storico della Dottrina di Addai. Nicolotti, che pacatamente e serenamente definisce illogico il tentativo della Marinelli di identificare il Mandylion con la Sindone, altrettanto pacatamente scrive che la Ramelli non sa far di conto: si chiede, ma se la Ramelli giudica storicamente inconsistente lo scambio epistolare tra Gesù ed Abgar, perché vuole individuare un sostrato storico per l’immagine edessena che è parte di una leggenda posteriore alle lettere? Al nostro storico da Torino bisognerebbe spiegare (o forse insegnare, fate voi), che trattasi di cose ben differenti, e che sono due aspetti di una stessa tradizione che non camminano in parallelo, come testi più tardi confermano, e che dunque non giustificano il suo scetticismo sulle capacità matematiche della storica da Milano. L’esistenza dell’immagine è quasi certamente precedente al testo di Eusebio, che più che per l’antipatia verso le icone di Gesù, non trova alcun bisogno di collegare le due cose per la tradizione vigente a quel tempo (quindi, ancora più semplicemente, le due cose non erano ancora collegate nella tradizione): come scrive la Sartori, al tempo di Eusebio quanto vi era di importante era «lo scambio di lettere tra il toparca ed il Salvatore» (p. 381), non l’elemento soprannaturale legato all’immagine, una situazione che permane ancora al tempo della Dottrina di Addai e che cambia soltanto dopo il 544, e non a caso direi. Ma, come notato, Eusebio già conosce l’aspetto del “fulgore del volto”, che ha nella vicenda una sua evoluzione propria da fulgore del volto del discepolo –>; fulgore della statua di Abgar (Egeria) –>; fulgore del volto di Cristo (Doctrina Addai). È chiaro che siamo di fronte ad una commistione di documenti scritti e tradizioni orali di diversa estrazione, impossibili da datare nel tempo ma certo già comuni non più tardi della fine del III secolo, se Eusebio dopo aver registrato i locali racconti sente il dovere di andare negli archivi della città per verificare la “tradizione” sui documenti conservati al fine di farne menzione nella sua opera. Fonti documentali che nel tempo si sono moltiplicate fino ad arrivare ad Agapio che pare compiere un’opera di ricerca storica in quello che era diventato un mare magnum: si può dire che dal punto di vista storico-moderno, la tradizione riportata da Agapio è tra quelle certamente più credibili sul profilo prettamente storico (assenza di Giuda-Tommaso, assenza di una Protonice, mancanza di elementi miracolosi per l’immagine, etc.). A cinque secoli di distanza, la tradizione che lui riporta non poteva in alcun modo essere orale, ma solo documentale: come abbia fatto a secernere così intelligentemente i fattori di questa intricata storia rimarrà per sempre un mistero, da cui imparare ancora oggi.

Dunque, si diceva, quando Nicolotti vuol dare lezioni di storia e logica alla Ramelli prende una delle sue topiche: il motivo fondamentale del lavoro della Ramelli è individuare tracce storiche nel sostrato della tradizione in grado di testimoniare uno scambio epistolare, questo sì effettivo, tra il toparca Abgar e l’imperatore romano Tiberio. La Ramelli nota una serie di concordanze perfettamente storiche con la situazione al tempo di Tiberio, parte delle quali sono confluite all’interno della Doctrina Addai: chi scrisse questo testo dunque, ha fatto riferimento a fonti documentali molto precise che Eusebio invece scartò al suo tempo (se a lui conosciute), come per altro già intuito dai primi che pubblicarono il testo in epoca moderna. In un altro passaggio del suo studio la Ramelli trova conferme di una possibile forte influenza cristiana nella città di Edessa al tempo dei Severi, tanto che può ipotizzare che lo stesso Abgar il Grande si fosse convertito al cristianesimo, costruendo anche una chiesa. Come sempre capita quando si tratta di “interpretare”, ognuno tira l’acqua al suo mulino, per cui molti ritengono che non si possa parlare di cristianesimo ad Edessa già nel 202. Se però così fosse, come una lettura dei testi basata sul loro testo porterebbe a pensare, è perfettamente logico postulare che qualcuno, nel corso del III secolo, avesse prodotto un dipinto del Cristo, non però nel senso di icona da venerare, poiché in quel periodo era ancora vigente il divieto di idolatria (a differenza dei Carpocraziani, ma come hanno fatto i cristiani di Dura-Europos, come fecero gli “abitanti” delle catacombe romane, etc., che raffigurarono Cristo sotto altre sembianze), ma come normale rappresentazione del Salvatore. Il già citato Bertelli (che come Runciman data l’immagine al III secolo) arriva anche ad ipotizzare che questo ritratto fosse custodito nel palazzo del re: d’altronde Elio Lampidio ricorda che un’immagine di Gesù (statua o dipinto non è possibile dire) era venerata da Severo Alessandro nel suo larario (Vita di Alessandro Severo 29,2).

Summary time: da quanto tracciato fin qui, l’evoluzione dell’immagine edessena appare abbastanza intricata ma leggibile. Un ritratto fissato su tavola, probabilmente dipinto nel III secolo quando cresce ad Edessa l’influenza dei Cristiani, che viene progressivamente collegato con la predicazione di un discepolo di Gesù nella città, forse per affermare il valore dello stesso (una pratica frequente al tempo, quando si cercava di “retrodatare”, “antichizzare” qualcosa per conferirle autenticità), fino a diventare immagine miracolosa e palladio di Edessa, sempre forse come risposta politica all’immagine kamuliana di Costantinopoli (che non sarebbe niente altri che il “Velo della Veronica” che alcuni vogliono nel XVII sec. finito a Manoppello). Nicolotti insiste, come altri storici d’altronde, che non esiste attestazione dell’immagine prima del V secolo: ma, come lui stesso fa notare, non si parla d’immagine neanche in documenti posteriori al VI secolo quando oramai la stessa era acheropita e ben famosa, quindi l’utilizzo dell’argomento ex silentio nel suo caso è destituito di qualsiasi fondamento. Per consentire all’autore della Dottrina di Addai di collegare immagine e lettere, bisognava che entrambe avessero una certa valenza, che se ne facesse menzione nei documenti della città, che fosse qualcosa di ben conosciuto dalla gente del posto ma anche da chi a distanza avrebbe letto il racconto (da qui anche la scarsa tendenza a descrivere l’immagine, pratica frequente in antico quando si parlava di cose da tutti conosciute). L’esistenza di diverse tradizioni che sembrano in alcuni casi svilupparsi in modo indipendente conferma l’evoluzione diacronica della storia, ma non consente alcuna datazione certa sull’origine dei suoi elementi, a mio modo di vedere non anteriore comunque al III secolo, quando come detto cresce l’influenza cristiana in città (e anche questo non sarebbe un caso, in definitiva).

Quello che Nicolotti (il cui intento è unicamente “avversaristico”) e gli altri storici trattano molto di sfuggita è anche come questa storia evolve: perché dalla tavola di legno si passa ad una tela solitaria? Se, come testimonia il Mandylion di Roma, le due cose dovevano essere un tutt’uno già in tempi molto remoti (come detto, è probabile che sia proprio questo il ritratto portato a Costantinopoli nel 944), non si capisce come mai nelle fonti successive i ritratti da Edessa diventino due se non tre, con da una parte la sopravvivenza della tradizione dell’immagine su tavola (che Agapio recupera nel X secolo), dall’altra l’esistenza di una immagine su panno (oltre al keramidion). Cosa perfettamente evidente nella Narratio de immagine edessena, scritta e resa nota per volontà della corte di Costantino VII alla metà del X secolo, dove per altro al tradizionale ritratto di Edessa si aggiunge una diversa versione nella quale l’immagine diventa momento della Passione prodotta sul panno dal sangue e dal sudore del Salvatore, al Getsemani.

In questo momento della storia dunque si inserisce un’altra tradizione che lega l’acheropita di Edessa ad un fatto legato alla Passione di Gesù, e alla tradizionale acqua usata da Gesù per detergersi il volto si sostituiscono sudore e sangue. Un passaggio che si perde nella notte dei tempi ma che a nessuno pare interessante comprendere. Vale ricordare comunque che in questa prima fase del passaggio i testi si riferiscono sempre ad un panno e non ad un lenzuolo. Tra le altre cose la Narratio, come quasi tutti i testi di questo tipo che si fondano su fatti non storicamente avvenuti, è il risultato di svariate rielaborazioni: gli studiosi hanno voluto chiamare questi rivoli del testo A1, A2, B1, B2 a identificare successive modificazioni confluite/redatte in/da autori successivi (come il caso di Simeone Metafraste, a volte erroneamente identificato come primo redattore). Tra questi rivoli sopravvive una versione più antica che fa riferimento al tetradiplon degli Atti di Taddeo (ma, come detto, questo “quattro” risale a documenti ancora più antichi: secondo la Sartori potrebbe anche riferirsi ad una tavola di legno composta da quattro strati, più che quadrata come scriverà Agapio), che doveva dunque costituire una fonte diretta. Coevo alla Narratio è il Codex Vossianus Latinus Q69 (secondo De Meyier, al più tardi databile all’XI sec., ma con contenuti che potrebbero risalire all’VIII secolo), dove si legge faciei figuram sed totius corporis figuram cernere poteris: il testo riporta infatti l’ennesima versione della leggenda di Abgar, dove però si parla di un panno raffigurante il corpo intero di Gesù. Nel manoscritto Vindobonensis hist. gr. 45 databile intorno al X secolo si parla ancora dell’intero corpo di Cristo in relazione alla leggenda di Abgar, e si dice che l’immagine è applicata ad una tavola adornata di oro (qui vale notare la descrizione precisa della tavola, adornata di oro com’è oggi quella in Vaticano: un caso?). Molti si oppongono ad una testimonianza di Stefano III in un sinodo romano del 769 (PL 98, 1256 C), che parla d’altronde della semplice immagine del volto, ma ad esser sinceri questa testimonianza è di una certa utilità: un sermone contenuto in ms. Vat. Lat. 5696 (sec. XII), ai ff. 34-35 scrive si vero corporaliter faciem meam cernere desideras, heu tibi dirigo linteum, in quo non solum faciei mee figuram sed tocius corporis mei cernere poteris. La tradizione di provenienza del testo è la stessa del Q69, e Gervasio di Tilbury che compone gli Otia Imperialia verso il 1212, scrive ancora sed quia mee corporaliter videre desideras, en tibi dirigo linteum, in quo faciei mee figura et tocius corporis mei status continentur (III, 23). La somiglianza è notevole in tutti e tre i passi: il testo papale sarebbe dunque stato interpolato con l’aggiunta di un corpo intero, documenti che Gervasio prende a modello, abbreviandoli liberamente. Che senso avrebbe aggiungere alle parole di un Papa un’interpolazione di pura fantasia? Fuori dal contesto papale, verso la metà del XII secolo, nell’Historia Ecclesiastica IX, 13 (PL 188, 690) di Olderico Vitalis, ad Abgar viene mandato un lino prezioso quae dominici corporis speciem et quantitatem intuentibus exhibet: “mostrava fattezza e statura” si potrebbe tradurre, una conferma indiretta della presenza dell’intero corpo di Gesù sul telo, giacché non vedo come si possa conoscere la statura di una persona dal suo solo volto. Simile versione è in un manoscritto del Sinaxarion dal monastero di Iveron, la cui copia più antica risale al XIV secolo ma il cui contenuto è evidentemente anteriore, che parla ancora del corpo intero di Gesù e usa, nel testo, la parola tetradiplon (ancora un rimando alla tradizione più antica?). Tutta questa serie di documenti rende evidente come si fosse sviluppata una solida tradizione dell’esistenza di una immagine del corpo intero del Cristo su un telo almeno 300 anni prima forse più l’avvento della Sindone secondo il C14. Nulla si sa di questa immagine visto che l’unico sopravvissuto è, casualmente, proprio il Sacro Telo di Torino: di certo, non viene descritta né legata a momenti particolari della vita di Gesù, per cui ogni conclusione è inevitabilmente ipotetica, ma rimane il fondo sostanziale. E dei vari testi di cui sopra è interessante notare la specificazione: vedrai non solo il mio volto ma anche il mio corpo intero, non solum… sed… dice Gesù ad Abgar. Il redattore vuole ribadire che la “sua” immagine di Edessa mostra l’intero corpo.

Una testimonianza scientifica avulsa dal contesto dell’autenticità della Sindone è quella di Hans Belting, già citato in precedenza: in un vecchio articolo di 30 anni fa scriveva che a Costantinopoli è possibile notare una modificazione nei riti liturgici a partire dal XI-XII secolo, con le prime testimonianze (vd il Cristo di Kastoria del XII sec.) della figura a mezzo busto del Man of Sorrows al quale, in un secondo momento (vd l’icona a mosaico di Santa Croce in Gerusalemme del 1300 ca.), si aggiungono le braccia incrociate in posizione funeraria. La presenza di stoffe si lega indubitabilmente a momenti liturgici, ne sono esempio gli epitaffi, in particolare alla Liturgia Divina della Settimana Santa. L’autore, al tempo, poteva scrivere che “the existence of the true likeness of the buried Christ [the Holy Shroud, ndr.] justified the creation of our icon” e ancora “The Holy Syndone in the Palace Chapel is testified by Nikolaos Mesarites, its public presentation by Robert de Clari in the Church of the Blachernai” (p. 6 n. 23): l’icona di cui Belting parla, ovvero il Cristo morto, è per lui isolata da ogni contesto narrativo, slegato da scene bibliche ma dipendente dai nuovi sviluppi che si ebbero in quel tempo nella liturgia, che vedeva la celebrazione di nuovi momenti legati alla Passione. E l’epitaphios da Fruska Gora (fine XIII sec., immagine sottostante), già al Museo per l’Arte Ecclesiastica di Belgrado, è una chiara rappresentazione di come la riproduzione di una reliquia storica viene adottata nella liturgia con l’aggiunta del velo liturgico a coprire il corpo di Cristo (così anche D. Pallas). La presenza già alla fine del XII secolo di un velo nella Chiesa delle Blachernae (che Belting identifica con la Sindone) è un’altra prova di questa evoluzione. Sono sicuro che oggi Belting, come studioso, non scriverebbe più queste cose a seguito del “verdetto del C14”, ma a suo tempo pur senza entrare in merito alla datazione del telo non si opponeva alla possibile antichità (scrive infatti “that was believed to be the authentic relic of the Holy Shroud”), collocandola al tempo del suo discorso storico a Costantinopoli. Dopo il sacco del 1204 e la scomparsa di molte immagini sacre, Belting nota “the history of liturgical images changed” (p. 11). Di nuovo.

Va detto comunque che rimane problematico identificare la Sindone di Torino tra le “sindoni sepolcrali di Cristo” citate dal Mesarites, giacché la nudità della salma si può tranquillamente intuire dai vangeli (Gv 19, 23-25); è vero però che lo stesso Mesarites (inizi XIII sec.) in alcuni suoi discorsi parla del “Legislatore fedelmente raffigurato su un asciugatorio” e ancora “apparso nella somiglianza di uomo … sull’asciugamani”: poiché il testo si lega al keramidion, è evidente da parte sua il riferimento all’immagine di Edessa, ed è anche interessante notare come lui lo definisca “prototipo”. Anche la testimonianza di R. De Clari rimane alquanto oscura, potendosi confondere con un’immagine su tavola della Vergine con Bambino (il cui più antico esemplare del soggetto è la citata immagine di Kastoria, sul lato verso) coperta da un telo come protezione, di cui si conosce il “prodigio” del sollevamento nella Chiesa delle Blachernae già nel 1071, che darà origine alla consacrazione del Sabato della Vergine. Se si è disposti ad ammettere che il De Clari riporti soltalto una diceria popolare e non descriva quanto lui vede, al tempo stesso bisogna dire che una diceria popolare non può svilupparsi dal nulla: a Costantinopoli esisteva allora una immagine del corpo intero di Cristo che si diceva venisse innalzato alla Blachernae. Comunque, se come si crede qui la Sindone non è il Mandylion di Edessa al tempo conservato nella cappella del Pharos, l’immagine delle Blachernae può essere, per così dire, “riabilitata”.

Passando alle rappresentazioni artistiche del Mandylion, “the earliest representations suggest that the physical object know in the tenth century and later was indeed a small cloth […] looking like an icon” (Cameron 1981 p. 13). In tal senso si pongono l’icona del Sinai (la rappresentazione di Abgar alla maniera di Constantino VII la data quasi certamente al X secolo), un menologio della Biblioteca Patriarcale Greca di Alessandria Cod. 35 p. 286 e ancora il Cod. 499 della Morgan Library di New York redatto nel 1032 (prima immagine). Leggermente diverso appare il Cod. 382 f. 192v da Mosca nel quale il mandylion ha una forma quadrata (seconda immagine).

Mandylion Edessa New York cod. 499

Mandylion Edessa nel cod. 382 da Mosca

Nel manoscritto della Bibliothéque Nationale di Parigi Ms. Lat. 2688 risalente alla fine del XIII secolo si trovano due miniature (f. 75 e f. 77) che rappresentano il volto di Gesù non su tavola, non su un “pezzetto di stoffa”, non su un aciugamano, ma su un “telo da mare” (e forse non per niente nel testo è chiamato “sindon”): anzi, ad essere precisi, nel f. 77 la parte del volto di Gesù è come incorniciata, come fissata su un supporto (l’antica tavola di legno?). Vi invito a fare mente locale su questo particolare: all’interno di uno stesso codice, sfogliando pagina il medesimo oggetto è raffigurato in due modi diversi. Il volto, dopo aver guarito Abgar, viene incorniciato come fosse appunto fissato su tavola. Ma anche in tal caso appare come su un lungo telo, non ripiegato. Ugualmente lunghissimo (e ripiegato) è il telo del Cod. 5.3.N.2 f. 131r da Madrid meglio noto come Ms. Scylitzes (ultima immagine), del quale tuttavia qualcuno ha avuto l’ardire di negarne la lunghezza (il solito Nicolotti per caso?), come se un’immagine fosse opinabile. Rimango sempre abbastanza perplesso sul perché si debba usare un aciugamano da mare per raffigurare un volto, ma tant’è.

Ms Scylitzes f131

Poco prima di disegnare queste miniature, da qualche parte in Europa altri miniaturisti erano al corrente di un’altra tradizione dell’immagine edessena, quella più classica della tavola con il volto dipinto. È un disegno al f. 292 del manoscritto conservato a Tbilisi presso l’Institute of Manuscripts ms Q-908, detto Evangeliario Gelati e risalente al XII secolo. L’immagine non è immediatamente comprensibile, infatti nella scena superiore sembrano riconoscersi più strati, almeno 3: si potrebbe ipotizzare che piuttosto di una tavola si tratta di un telo ripiegato più volte?

È questo passaggio che diventa un punto chiave della storia, è questo arrivo che non andrebbe liquidato con eccessiva semplicità: perché un’immagine da sempre legata alla vità di Gesù, giunge a Costantinopoli, si lega ad un momento della Passione di Cristo e, in un rivolo della tradizione, diventa corpo intero? Dove e quando si compie questo passaggio non è di grande importanza rispetto al perché si compie questo passaggio. Che il Mandylion di Edessa della più antica tradizione testuale non sia la Sindone di Torino ma si sia perpetuato nel lino su tavola di cipresso custodito a Roma nelle stanze vaticane io non penso ci siano grandi dubbi (Nicolotti mi pare identifichi l’immagine edessena con un piccolo panno/asciugamano, definendo l’immagine di Roma un’imitazione bizantina nella quale la “tela di lino [è] appiccicata ad una tavola di legno”, p. 40: notevole qui l’uso del termine prettamente scientifico “appiccicata”, comunque l’immagine doveva già essere una tela su tavola fin da età molto remota, e non va escluso che la datazione al VI secolo data dalla Sartori sia riferibile alla prima versione della copia poi definitivamente ritoccata in epoca bizantina, ma è una congettura astratta): ma sul perché nella sua storia si inserisca questo passaggio si dovrebbe scrivere decisamente qualche parola in più. E la notazione di Belting sulle modificazioni liturgiche che si ebbero dopo il X secolo con l’immagine dell’Uomo dei Dolori (che si possa legarle o meno alla Sindone), quando per altro Costantinopoli con le Crociate diventa nuova grande meta di pellegrinaggi (oltre a Roma e Gerusalemme), che valore può avere in tutte queste vicende? A Costantinopoli “appaiono” (o vengono “ritrovate”), immagini che portano un’evoluzione liturgica di un certo tipo: la fase successiva della liturgia si ha quando queste immagini spariscono, per lo più perché rubate nel sacco del 1204. Oltretutto, scrive Dubarle, sempre a partire dal X secolo “l’iconografia della sepoltura di Cristo si trasforma e introduce un elemento nuovo, un grande telo sul quale il corpo tolto dalla croce sarebbe stato posto per essere unto e pianto” (p. 60): dal Cristo in croce del IX secolo alla scena della “lamentazione funebre”, anche detta Threnos (anch’essa alla base delle modificazioni liturgiche successive), che avrebbe il suo prodromo nell’omelia di Giorgio di Nicomedia (PG 101, 1457ff.) del secolo precedente e che Weitzmann lega alla scena mitologica della lamentazione sul corpo di Atteone. Nella storia e nelle vicende umane nulla accade per puro caso, che noi riusciamo a comprenderle oppure no. Questo X secolo fatidico che vede un cambio nella tradizione dell’immagine di Edessa, un cambio nell’iconografia della sepoltura di Cristo e pone le basi per modifiche ai riti liturgici: tutto grazie, secondo gli scettici, alla fervida fantasia di qualche anonimo scrittore bizantino. Buon per loro che hanno così tanta fede da crederci.

E liquidare a priori il collegamento con la Sindone come illogico per il prurito che genera una sua retrodatazione rispetto alla vulgata del C14 (una delle truffe scientifico-matematiche più eccezionali della storia), dovrebbe far impallidire chiunque voglia fare storia per professione, per passione e non per guadagno. Ma non perché negli Atti di Taddeo si usano le parole sindon e tetradiplon, vocaboli affatto secondari sul significato che rappresentano, ma sul valore che assumono nel X secolo una serie di tradizioni che vanno a contaminare l’originaria redazione. Per dirla con Guscin, come e perché sia avvenuto questo è impossibile dire, ma è un fatto che da qualche parte, una volta che il ritratto giunge a Costantinopoli qualcuno si convince che sia un telo della Passione fatto con sudore e sangue e che questo telo, in seguito, diventa un lungo panno (ripiegato?) con l’immagine del corpo intero.

Final Summary: eccoci giunti all’ultimo appuntamento con il nostro sommario, che più o meno suona così: tela dipinta (fissata su tavola di legno) –>; acheiropoiètos –>; mandil/shushepa/sindon –>; immagine di un momento della Passione –>; corpo intero (su telo forse ripiegato)

Tradizioni che sussistono insieme, evolvono separatamente, si commistionano tra loro, tanto che il redattore della Narratio già nel X secolo ci tiene a sottolineare che pur trattandosi di storie diverse, esse non ostano alla realtà dell’immagine. Ma pensare che il rivolo storico del corpo intero sia il semplice frutto di una fortunata quanto fervida fantasia di un redattore bizantino è ben oltre la pura speculazione congetturale, è immaginare che gli altri siano degli stolti disponibili a dare credito a simili affermazioni. Se confusione c’è stata, come pare inevitabile ammettere, questo è stato possibile solo perché, la famosissima immagine di Edessa ha cominciato a sostituirsi, come identificazione nel volgo locale, ad un’altra immagine ugualmente tenuta in debita considerazione all’interno della città, talmente di grande interesse che qualcuno dovette cominciare a chiedersi se non fosse proprio quella l’immaginifico acheiropoietos dall’antica città mesopotamica (anche perché, in quanto tale, era custodito lontano da occhi comuni all’interno di una capsa sigillata nel Boukoleon, e quindi non era possibile una verifica diretta delle varie leggende). Andare oltre però, è un giochino congetturale al quale non vogliamo prestare il fianco.

Se è debole la testimonianza del piccardo De Clari, certamente lo è ancora di più l’identificazione del Mandylion di Edessa con la Sindone, che da qualche tempo a questa parte sta prendendo sempre più piede nella storiografia contemporanea. La mia impressione è che ci sia quasi una caccia al Graal tra autenticisti e negazionisti, i primi che a volte paiono vedere la Sindone ovunque nella storia si citi un’immagine del corpo intero del Signore, i secondi che ne negherebbero l’esistenza prima del XIV secolo anche se avessimo a disposizione una macchina del tempo. Non si va molto lontano in queste condizioni: si dovrebbe recuperare una serena analisi delle fonti e del loro sviluppo diacronico, poiché per lo più si parla di leggende frammiste tra loro, dalle quali trarre un qualsiasi risultato è compito assai complicato oltre che pericoloso, in ogni direzione si voglia andare.

Notazione finale, secondo me non hanno nulla a che vedere con questi sviluppi storici le sindoni che esistevano in svariate città dell’impero, testimoniate con vari nomi in narrazioni di pellegrini e cataloghi di reliquie. Nessuna di queste sindoni ha mai raggiunto il benché minimo stadio di tradizione meritevole di essere menzionata/ricordata, quasi certamente perché di esse si parla sempre come teli mondi e aniconici. Lini bianchi e niente altro. Invece, nell’immagine di Edessa si inserisce la tradizione di un corpo intero raffigurato con sudore e sangue della Passione, e questo avviene indubbiamente a Costantinopoli: sarebbe illogico pretendere di speculare come fosse verità che questo lenzuolo di riferimento sia la Sindone, ma se non è la Sindone, quali altre “reliquie” bizantine tramandate dalla tradizione (visto che non sono giunte fino a noi) possono essere prese a riferimento come individuanti questo modello di corpo intero con sudore e sangue? Quali userebbero oggi Belting e Pallas e altri studiosi per suppore la loro dipendenza? A patto di non ammettere che loro stessi, in passato, stessero vaneggiando: ma a supporto della loro sanità mentale rimangono i reperti, testimoni silenziosi di pensieri storici e liturgici che hanno attraversato l’umanità negli ultimi 1000 anni.

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N.B.: questo contributo è soggetto a successivi aggiornamenti, sempre intesi ad aggiungere materiale bibliografico. 4ª rev. 28/11/2012.

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Bibliografia fondamentale

Bibliografia generale sulla Sindone

Belting 1980-81: H. Belting, “An Image and its Function in the Liturgy: the Man of Sorrows in Byzantium”, in Dumbarton Oaks Papers 34/35 (1980-81), pp. 1-16.

Belting 2001: H. Belting, Il culto delle immagini (trad. it.), Roma 2001.

Bertelli 1968: C. Bertelli, “Storia e vicende dell’immagine edessena di S. Silvestro in Capite a Roma”, in Paragone. Arte, n.s. 37.19 (1968), pp.3-33.

Brock 2004: S. Brock, “Transofrmations of the Edessa Portrait of Christ”, in Journal of Assyrian Academic Studies 18 (2004), pp. 46-56.

Cameron 1981: A. Cameron, “The sceptic and the Shroud”, in Continuity and Change in Sixth-Century Byzantium, London 1981.

Cameron 1998: A. Cameron, “The mandylion and byzantine iconoclasm”, in Kessler-Wolf 1998, pp. 33-54.

Drijvers 1998: H.J.W. Drijvers, “The image of Edessa in the syriac tradition”, in Kessler-Wolf 1998, pp. 13-31.

Kessler 2000: H.L. Kessler, “Il Mandylion”, in Morello-Wolf 2000, pp. 67-99.

Kessler-Wolf 1998: H.L. Kessler, G. Wolf, The Holy Face and the paradox of representation, Bologna 1998.

Morello-Wolf 2000: G. Morello, G. Wolf, Il Volto di Cristo, Milano 2000.

Nicolotti 2011: A. Nicolotti, Dal Mandylion di Edessa alla Sindone di Torino. Metamorfosi di una leggenda, Alessandria 2011.

Pallas 1965: D.I. Pallas, Die Passion und Bestattung Christi in Byzanz. Der Ritus-Das bild, Munich 1965.

Ramelli 2006: I. Ramelli, “Possible historical traces in the Doctrina Addai”, in Hugoye: Journal of Syriac Studies 9.1, pp. 51-127

Sartori 2011: O. Sartori, “Il Mandylion. Annotazioni storiche e iconografiche sul volto autentico di Cristo in Vaticano”, in Atti della Pontificia Accademia Romana di Archeologia. Rendiconti LXXXIII (2011), pp. 379-407.

Weitzmann 1960: K. Weitzmann, “The Mandylion and Constantine Porphyrogennetos”, in Cahiers Archéologiques XI (1960), pp. 163-184.

Weitzmann 1961: K. Weitzmann, “The Origins of the Threnos”, in M. Meiss (a cura di), De Artibus Opuscola XL, Essays in Honor of Erwin Panofsky (1961), pp. 476-490.