Ma i primi Cristiani hanno davvero conservato la Sindone?

Secondo gli scettici, il quadro sulla Sindone è completo: il C14 ci dice che è del XIV secolo, le testimonianze storiche ci dicono che appare nel XIV secolo, ergo a parte l’inezia di non sapere neanche oggi come sia stato possibile fabbricarla, è demenziale continuare a cercare prove per la sua retrodatazione.

Si potrebbe facilmente rispondere che l’analisi al C14 è una truffa scientifico-matematica di proporzioni universali, e che dal XIV secolo appare solo la Sindone così come la intendiamo noi oggi, il che significa solo che forse, in precedenza, la nostra Sindone non era “l’antica” Sindone, che poteva essere chiamata in qualche altro modo. Fin qui, è un ragionamento di pura logica, e mi pare che a questo livello del discorso sia soltanto una questione di fede se credere o non credere alla Sindone.

Ci sono però altri livelli del discorso che possono apparire interessanti, ad esempio: ma i primi Cristiani possono aver conservato la Sindone? A leggere uno scritto di Mauro Pesce pubblicato su MicroMega, il giornale degli ateo-fondamentalisti (di sinistra, aggiungo, anche se questo non conta un piffero), la risposta è categoricamente no. L’esperto di antropologia del primo cristianesimo infatti compie una lunga analisi che dimostrebbe come ai primi Cristiani non sarebbe importato un fico secco di conservare i vestiti sepolcrali del Signore, perché a loro non serviva. Ora, finché le reliquie a cui si riferisce Pesce sono i sandali, lo spazzolino da denti, l’iAncientPhone, il sacchetto di tela con cui fare la spesa, ci mancherebbe che non si possa essere d’accordo: la mania di cercare reliquie anche le più impensabili sorge soltanto secoli dopo. Prova ne sarebbe il fatto che neanche a Elena madre di Costantino o nelle prime “caccia alle reliquie” venne in mente di cercare la sindone del Signore, tanto era assurdo che fosse stata conservata dai primi discepoli (che invece avrebbero avuto cura di conservare non solo i pezzi della croce ma perfino i chiodi dopo averli disincarnati dal corpo di Gesù tolto dal patibolo!). Che non fosse così assurdo non è però un’idea moderna, se un vescovo spagnolo del VII secolo, tal Braulione da Saragozza, ipotizzò che gli apostoli potessero aver conservato i lini sepolcrali del Signore. È anche interessante che alcuni testi dicano che talune immagini del Signore fossero state realizzate mentre lui era in vita, quindi nell’ottica di questi antichi credenti dall’epoca di Gesù si sarebbe conservato praticamente di tutto (le catene di S. Pietro, il titulum crucis, i denti di Gesù e perfino il suo prepuzio!), tranne la Sindone.

Ma per la Sindone il discorso è diverso: il Vangelo di Giovanni (non i racconti segreti di Topolinus) al capitolo 20 versetto 8 recita “e vide e credette”. Secondo la traduzione corrente del testo, Giovanni entrato nel sepolcro avrebbe visto “i teli posati là” ed il sudario avvolto a parte: questo secondo chiunque potrebbe poter giustificare un “vide e credette”? Impossibile, doveva presentarsi ai suoi occhi una scena che in pochi secondi gli fece comprendere anni di predicazione del Signore. I Vangeli infatti più volte dicono che quando Gesù parla della risurrezione del suo corpo, gli apostoli non capivano: all’improvviso, Giovanni credette. La risposta in realtà si trova in una vecchia traduzione del passo proposta da Don Persili, molto più fedele al testo greco, che utilizza un termine sul tipo “giacere” nel senso di “dopo essersi afflosciati”: il lenzuolo sepolcrale di Gesù, ancora disposto come al momento della sepoltura, si era afflosciato su se stesso, “stava lì giacente” come se il suo contenuto fosse sparito all’improvviso. Solo così si può spiegare perché l’evangelista dica che “vide e credette” e che finalmente era loro chiaro cosa volesse dire “che doveva risorgere”. Secondo Mauro Pesce, di fronte a questa visione, gli apostoli avrebbero abbandonato la Sindone al suo destino, tanto una volta trovatala vuota, non serviva più a niente, tutto era compiuto. Una lettura semplicistica, di chi “lesse e preferì non capire”. Infatti per Pesce i Vangeli di Marco e di Matteo lascerebbero intendere che nessuno entrò nella tomba (quindi il cristianesimo sarebbe nato perché qualcuno ha trovato un sepolcro aperto? Bah!), solo Luca oltre a Giovanni scrive che gli apostoli vi entrarono. Ma per lo studioso, poiché nessuno dice che era presente un’immagine sulla Sindone, allora questa risultava aniconica, pertanto non può essere la Sindone di oggi. In più, nelle scene di apparizione, non si fa alcuna menzione della presenza di un lenzuolo presso la comunità cristiana e anzi la scena dell’incredulità di Tommaso dice espressamente che l’apostolo dovette mettere le mani nel costato di Cristo per “assicurarsi” che fosse di nuovo vivo. Dunque, conclude Pesce “non pensavano affatto che un lenzuolo con l’immagine del corpo morto di Gesù servisse a fondare la fede” (il corsivo è dell’autore). Temo che Pesce, nonostante sia professore universitario, non abbia capito una ceppa secca di cosa sia la Sindone, atteggiamento tipico di chi si accosta a questo reperto dal nulla: né oggi né mai la Chiesa ha pensato che la fede sia fondata sulla Sindone!!! I Vangeli, dal canto loro, non sono cronache giornalistiche scritte nell’imminenza dell’evento, ma risposte elaborate sulla base di molteplici testimonianze rivolte a comunità distinte nel tempo e nella geografia (come scrive Y. Redalié in I Vangeli. Variazioni lungo il racconto: unità e diversità nel Nuovo Testamento, Torino 2011), frutto di interpretazioni fedeli sì all’evento originario, ma pur sempre rielaborate e reinterpretate alla luce degli eventi e del tempo che inevitabilmente cominciava a decorrere dal momento fondante. Se la Sindone era in possesso degli apostoli o della prima comunità cristiana (il che non è comunque strettamente necessario per la sua conservazione ad maiora), potrebbero essere stati proprio i primi redattori a scegliere, tra le tante narrazioni a disposizione, di non inserire un particolare che correva l’inevitabile rischio di diventare un feticcio pagano.

Sudario di Oviedo

A ben vedere poi, anche il Sudario di Oviedo ha una storia strana: la sua prima menzione ufficiale si troverebbe in un documento del 1075 (conservato su una copia di XIII secolo) dove si cita un “de Sudario eius [Domini]”, secondo una perifrasi che appare anche sul rivestimento di argento dell’arca che custodiva la reliquia realizzato nel 1113; storicamente appare nelle cronache soltanto agli inizi del XII secolo nel Liber Testamentorum di Pelagio. Eppure il tanto osannato C14 lo ha datato al VII secolo, quindi per 500 anni questa reliquia sarebbe rimasta anonima e sconosciuta alle dissertazioni storiche del tempo, giacché questa datazione rende incompatibile la testimonianza di Antonino da Piacenza che nel 570 parla di un sudario conservato nei pressi di Gerico (che lui però non vide). Se nel 657, secondo Pelagio, il sudario fu portato a Toledo (per poi finire ad Oviedo nel corso dell’VIII secolo), non poteva essere quello che nel 670 il vescovo Argulfo dice di aver visto a Gerusalemme. Le possibili/presunte concordanze con la Sindone sono un altro paio di maniche, così come gli studi palinologici che confermerebbero l’itinerario descritto da Pelagio: ciò che conta è che per 500 anni il sudario sia rimasto anonimo alle cronache storiche e che per oltre 200 anni sia rimasto anonimo anche alle cronache cittadine, prima di essere preso in considerazione, dopo ulteriori 100 anni, dal vescovo locale. Almeno i preti di Lirey ebbero la bontà di dare subito risonanza all’improvvisa apparizione della Sindone.

Pesce poi raggiunge le vette massime dell’ignoranza cosmica quando osa dire che le immagini di Cristo imberbe nel primo cristianesimo sono prova che la Sindone (in cui Cristo invece è barbato) non era conosciuta: vedremo in un apposito studio come l’iconografia di Cristo risponda a stilemi precisi in una linea evolutiva iconografica che Sindone o non Sindone trova risposte ben precise nell’arte pagana dei primi secoli. Cristo imberbe, barbato, con i capelli lunghi o corti sopravvive nell’arte per secoli. Se Pesce avesse ragione, dal XV secolo in poi tutti avrebbero dovuto rappresentare Cristo com’è sulla Sindone, almeno fino al 1988, invece così non è. Saranno pur liberi gli artisti di non dover copiare qualcosa? Non per lo studioso evidentemente, troppo avvezzo alla filologia e poco all’iconografia. Magari ci spiegherà come mai nel XIX secolo una copia della Sindone (rinvenuta nella Senna presso Parigi) presenta Cristo con barba corta e capelli corti: se è una riproduzione, che almeno la barba ed i capelli siano lunghi come sulla Sindone!

Chroud pilgrim badge

Che poi tale lenzuolo non fosse successivo oggetto di venerazione, questo è un altro paio di maniche: agli Ebrei non servivano simulacra, ma questo non significa che i primi cristiani, testimoni oculari di un fatto eccezionale e per loro stessi sconvolgente, non presero la sindone per sottrarla ad una fine indecorosa (tendenzialmente l’essere bruciata perché impura). Molto probabilmente doveva essere valido anche per i primi Cristiani il divieto mosaico di farsi immagini di Dio (Dt 5,7; Es 20,4) e di venerarle come tali (ovvero con un culto di tipo idolatrico), divieto esteso agli esseri animati e che sarà di fatto definitivamente superato solo oltre 700 anni dopo (già i primi padri della Chiesa come Giustino e Tertulliano sono espliciti contro le immagini, soprattutto la venerazione considerata una pratica pagana). Per di più, almeno fino al IV-V secolo i Cristiani eviteranno accuratamente di rappresentare il supplizio della Croce o scene legate alla Passione: pur essendo la loro fede fondata su un fatto violento, per molti secoli non lo rappresenteranno mai, assimilando Cristo al buon pastore, al filosofo, al Cosmocrator-Pantocrator, ma mai a scene di violenza (che, per quel che ne sappiamo, appaiono per prime a Roma). In questo quadro, l’ostentazione di un impuro telo sepolcrale con tanto di immagine di Dio sarebbe andata contro tutti i precetti biblici (e i primi cristiani non avevano il microscopio a scansione laser per dimostrare che non era un dipinto) e non avrebbe fatto altro che rimarcare ciò che già di per sé era “scandalo”, ovvero la croce. È interessante in questo contesto aniconico prima ebraico poi cristiano il caso della sinagoga di Dura Europos (sotto una scena dal libro di Ester), centro mesopotamico crocevia di pagani, ebrei e cristiani: qui, databili al III secolo, si trovano mirabili pitture a soggetto biblico di stampo chiaramente giudaico, nonostante il testé citato divieto che consentì all’aniconismo ebraico di elaborare altissime teorie sul significato dei simboli (vd la porta del sepolcro ebraico di Kefer Yesef, oggi al Louvre, vero monumento di geometria sacra), inizialmente ripreso anche in ambito protocristiano. Dura Europos non poteva in alcun modo essere un caso unico ed isolato (anzi si può persino ipotizzare che le sinagoghe più antiche potessero ugualmente essere “istoriate”), anche se il tentativo di K. Weitzmann (“Zur Frage des Einflusses jüdischer Bilderquellen auf die Illustration des Alten Testamentes”, in Mullus. Festschrift Theodor Klauser, JAC. Ergänzungsband 1, 1964, pp. 401-415) di ipotizzare un ciclo figurato del Pentateuco già nel III-II secolo a.C. poi confluito nelle successive immagini paleocristiane è destinato a rimanere altamente ipotetico. Né si può pensare che gli affreschi di questo edificio siano una risposta ebraica alla maggiore libertà cristiana (dovuta alla predicazione presso i Gentili) nei confronti dell’arte figurativa.

Dura Europos Libro di Ester

Mi torna alla mente il ritrovamento nel 2005 delle insegne imperiali attribuite a Massenzio, avvenuto sul Palatino: quel giorno sullo scavo condotto dalla Prof.ssa C. Panella dell’Univ. di Roma “La Sapienza” c’ero anche io. Nonostante 5 secoli di impero, si tratta dell’unico caso di sopravvivenza di insegne imperiali: la sua attribuzione è frutto di studi e congetture, non c’erano cartellini a dirci che furono di Massenzio. Sono state ritrovate all’interno di una fossa praticata presso le Curiae Veteres (un posto altamente simbolico), e tutto lascia pensare che vi vennero volontariamente nascoste: nell’infuriare della battaglia con Costantino, la preziosità delle insegne convinse gli uomini fedeli all’imperatore, o forse l’imperatore stesso, ad ordinarne il nascondimento. La sconfitta in battaglia a Ponte Milvio fece il resto, consentendoci a distanza di quasi 1700 anni l’eccezionale ritrovamento. Certo, un paragone diretto è sciocco, dubito che la Sindone avesse per i primi cristiani il valore che potevano avere le insegne imperiali per un imperatore. Ma che ci sia un modo di ragionare logicamente simile, per cui si conserva/nasconde ciò che si considera prezioso, non mi pare così peregrino. Senza che nessuno ne avesse/conservasse memoria per secoli e secoli. Nel V-VI secolo, ad Edessa, un rivolo della storia del Mandylion dice che anticamente era stato nascosto, e che per secoli di questo nascondiglio se ne era perduta traccia (salvo poi averne una visione durante il sonno con cui sconfiggere i Persiani assalitori). Di cose nascoste, soprattutto tesoretti, noi archeologi ne troviamo parecchie sparse qui e là (en passant ne butto là una: i Rotoli del Mar Morto): in passato, ciò che si considerava particolarmente prezioso, si nascondeva al riparo da occhi indiscreti (i caveau delle banche non erano ancora stati inventati), dagli occhi di chi avrebbe potuto volerne il possesso in modo malfamato, magari per distruggerlo. Vale ricordare come i primi Cristiani, stando alle fonti disponibili, vennero perseguitati dall’establishment sacerdotale giudaico, tanto di fatto da essere costretti ad andare via da Gerusalemme, e prima ancora che a Roma diventassero numerosi, furono anche qui oggetto di una persecuzione da parte di Nerone: ammesso che avessero conservato la Sindone, di certo non l’avrebbero esposta ai 4 venti come un vessillo, sventolata come una bandiera allo stadio. Troppo facile sarebbe stata a quel punto l’accusa di aver rubato il corpo del Signore, un accusa che per altro si generò lo stesso molto presto tanto da far scrivere a Matteo che di fronte al sepolcro erano state poste alcune guardie: per altro, di leggi contro l’usurpazione di cadaveri ne esistevano a Roma (c’è stato chi è arrivato a pensare che una di queste leggi fosse stata ribadita da Nerone proprio in risposta alla “diceria cristiana”), in Grecia così come in Giudea, e potevano arrivare fino alla pena di morte per chi avesse violato una tomba. E la logica per cui, qualora la Sindone si fosse conservata, doveva per forza esserlo stato nella ufficialità della Chiesa nascente, così da trasmettersi da comunità a comunità anche attraverso i principali testi esegetici antichi è semplicemente arcana, per nulla risolutoria: se venne conservata, come nell’ipotesi più tradizionale, lo fu probabilmente dalla comunità giudaico-cristiana, presto esule a Pella dopo l’uccisione di Giacomo e probabilmente ancora vivente come comunità in gruppi che successivamente verrano chiamati nazirei ed ebioniti (poi scomparsi di fatto nel corso del II secolo). Vale notare che il Vangelo degli Ebrei di cui si dirà tra poco, non è chiaramente identificabile come comunità di appartenenza, ma venne composto evidentemente in uno di questi gruppi di esuli giudaico-cristiani da Gerusalemme.

La Sindone, conservata e nascosta, sarebbe dunque rimasta lontana dalla Chiesa ufficiale, poco conosciuta anche dalla chiesa non ufficiale e forse persino presto confusa con le reliquie che nei tempi successivi cominceranno a sorgere qui e là nell’impero, in particolare dopo l’editto di Costantino e l’azione alla Indiana Jones di sua madre Elena. Fino a riapparire secoli dopo a Costantinopoli, quando la leggenda del Mandylion di Edessa (già abbastanza ingarbugliata) comincia a prendere pieghe strane, con riferimenti a sudore e sangue dei momenti della Passione e lenzuoli riportanti l’immagine del corpo intero del Signore. E la Sindone non riappare all’interno della Chiesa ufficiale (come ad esempio il Mandylion di Edessa) ma, in Europa, sarebbe stata ritrovata a Lirey in Francia, una piccola comunità dove la Sindone fu dapprima in possesso del casato dei de Charny e solo dopo arrivò in possesso dei canonici locali, generando per altro subito un polverone di polemiche frutto di antipatie e gelosie tra parrocchie confinanti. Mi sono sempre chiesto perché un sostanzialmente anonimo casato francese, tra tutti i suoi tesori immagino anche religiosi, tenesse così tanto ad un lenzuolo (che secondo gli scettici avrebbe comprato da un rigattiere qualche anno prima) da volerlo dare in custodia al clero locale. Sarebbe stato più logico questo comportamento se l’oggetto avesse un suo qualche valore almeno dato dalla sua antichità o dalle vicende che lo vedevano legato a qualche luogo importante della cristianità, come poteva ben essere Costantinopoli. Ma questa è un’altra questione, che dovrebbe rispondere al perché una famiglia di una qualche importanza vuole consegnare ai canonici ciò che ritiene essere una reliquia (di Cristo per di più) considerando che erano vigenti al tempo condanne esplicite sul traffico di reliquie (XII Concilio Ecumenico, IV del Laterano, canone LXII), dopo le depredazioni delle stesse avvenute nel passato. Secondo gli scettici, i De La Roche/De Charny si sarebbero comportati come colui che, vigenti le leggi contro il commercio degli organi, ammazza un uomo, ne vende gli organi, e il giorno dopo va dalla polizia a dire “sapete che c’è, ho ammazzato un uomo e ne ho venduto gli organi”. Limitiamoci a dire… schizofrenico. La storia è fatta anche di perché, di motivazioni, di moventi direbbero gli investigatori, purtroppo per sempre inconoscibili e che per questo vanno indagati con le giuste domande: dispiace che tanti “storici”, tanto più quelli improvvisati, quelli della domenica (che sanno solo leggere i lavori altrui spesso senza neanche comprenderli), pensino che la storia si faccia solo e unicamente sul senso il più letterale possibile dei pochi documenti sopravvissuti (magari prescidendo dalla mentalità di chi quei documenti li scrisse). È molto più difficile a mio avviso spiegare che qualcuno fabbricò la Sindone nel XIV secolo piuttosto che farla risalire a 4-5-6 secoli prima (il che comunque implica che il C14 si sbaglia), quando di sudari, sindoni e reliquie di ogni tipo ne circolavano a bizzeffe, e si trovavano per lo più tra Gerusalemme, Costantinopoli e Roma, non a caso i 3 principali centri della Cristianità dal X secolo in poi. Invece no, come detto, la Sindone appare in un periodo di contrasto alle reliquie in un’anonima cittadina francese…

Un passo del Vangelo degli Ebrei testè citato dice: “Il Signore, dopo aver dato la sindone al servo del sacerdote, apparve a Giacomo”. Il passo è riportato da Girolamo (V secolo): l’obiezione è che Girolamo non fa alcun commento su questa sindone, quindi lui non è a conoscenza di eventuali immagini (ma lui stava riportando il passo di un vangelo apocrifo, non facendo la descrizione di un oggetto che conservava nel suo armadio); per altri, la parola sindon non andrebbe tradotta con sindone alla maniera evangelica, ma con tunica, veste: io invece penso che la “sindon” del Vangelo degli Ebrei sia proprio la “sindon” dei vangeli, ad indicare quindi i teli funerari di Gesù. Perché nel II secolo una comunità ha voluto aggiungere questo passaggio all’originale testo evangelico non si capisce: è davvero superfluo oltre che inutile, e dal punto di vista prettamente ebraico anche sconveniente, perché i teli sepolcrali erano impuri, e chi ne fosse venuto a contatto sarebbe diventato impuro. In più, per dirla con A. Vaccari, come tanti particolari dei vangeli apocrifi, testimonia l’interesse che i primi cristiani avevano sulla sorte della sindone sepolcrale del Salvatore, una domanda a cui il redattore del testo ha creduto di saper rispondere in questo modo. Ma perché doveva esserci in qualche comunità palestinese un tale interesse verso un telo funebre se l’interpretazione che si è data del vangelo di Giovanni è sbagliata e se la Sindone fin da subito venne abbandonata al suo destino? Perché si è generata questa attenzione ad un particolare scabroso? Di certo, gli apocrifi, che si voglia cercare in loro una qualche verità storica oppure no, non inventano leggende per il piacere nel scrivere romanzi, lo fanno prettamente come risposta ad esigenze della comunità nella quale sono redatti. Quasi che volessero costituire una risposta “ufficiale” ai rivoli della curiosità umana. Il fatto poi che fosse un oggetto funebre, quindi impuro, quindi da non sbandierare ai quattro venti, spiega chiaramente la differenza con i teli sacri del primo cristianesimo: scrive Pesce, ma se negli Atti delli Apostoli si attribuiscono capacità taumaturgiche ad un telo venuto a contatto con S. Paolo, quale potenza avrebbero attribuito ad un lenzuolo con l’immagine di Cristo? Nessuna probabilmente, visto che nella vulgata generale trattavasi di un telo impuro che raffigurava il supplizio della crocifissione, scandalo e stoltezza per i non cristiani. E come si diceva prima, il rischio di un inevitabile feticcio proprio alla luce di quanto accadeva per gli apostoli era molto più che dietro l’angolo, e leggere nella sua assenza dai primissimi scritti neotestamentari una lungimiranza in tal senso è molto meno ipotetico di quanto lo si voglia rendere puramente congetturale.

Questo Vangelo apocrifo dovrebbe per altro essere molto antico, scritto non molto dopo gli altri vangeli: per alcuni già Papia nei primi decenni del II secolo ne menzionerebbe l’esistenza quando parla dell’originale aramaico del Vangelo di Matteo. Ripeto, come dice anche il nome, era destinato ad una delle comunità giudaico-cristiane della Palestina, e il passaggio del telo sepolcrale consegnato al sacerdote non doveva esistere secondo la concezione ebraica dell’impurità sepolcrale: ha senso soltanto se è possibile ravvisare al suo interno una qualche traccia storica, se c’era davvero un motivo affinché degli ebrei tramandassero un evento contrario ai propri usi e costumi, se c’era davvero qualcosa per cui valesse la pena alterare il testo vangelico con l’inclusione di un passaggio che non aggiungeva nulla alle vicende della Passione, anzi, significava che perfino il Cristo era entrato in contatto con qualcosa di impuro (cosa che dunque renderebbe del tutto superflua la curiosità verso il suo destino). La Sindone giunta fino a noi? Purtroppo il cartellino con la scritta “questa è la Sindone citata nel Vangelo degli Ebrei” non si è conservato… 🙂

Diciamocela tutta: possiamo perdere pure tempo a lambiccarci il cervello per dimostrare “scientificamente” che l’assenza di prove è prova di assenza (ma l’aforisma di Carl Sagan recita esattamente il contrario, ovvero «l’assenza di prove non è prova di assenza»), tanto finché avremo dalla nostra, “scientificamente”, solo la truffa del C14 ci sarà poco da fare: nemmeno al CICAP hanno trovato un sistema per riprodurre la Sindone, continuando a spacciare le patacche di Pesce Delfino o Garlaschelli come prove della riproducibilità del reperto. Quindi la prova che sia un artefatto, di XIV secolo o quel che vi pare, per quanto non sia stata ancora definitivamente confutata, è ben più lontana dall’essere provata di quanto il populus pensi. E se un giorno sarà chiaro a tutti che la Sindone è “soprannaturale”, trovare il sistema di spiegare come e perché i primi cristiani l’avrebbero conservata è perfino superfluo, sebbene divertente da leggere.

Per queste e molte altre testimonianze (alcune, va candidamente detto, menzionate davvero a sproposito), si dice sempre: ma non si parla mai di una immagine impressa sul tessuto, ergo per cui… Eppure, quando in documenti più antichi del XIV secolo si parla di un telo che reca impressa l’immagine del corpo intero di Gesù, nessuno di loro è disposto ad ammettere che si parli della Sindone o che l’antico scrittore avesse in mente la Sindone. Insomma, per loro è sia zuppa che pan bagnato, basta che se magna. Si prenda il caso delle Terme di Traiano a Roma: Cassio Dione parla di questo complesso come di gymnasion, alla maniera greca (ma i bagni greci erano ben diversi da quelli romani), nonostante oramai a Roma già da un paio di secoli si fosse affermata una diversa pratica per i balnea e le thermae: allora dovremmo concludere che Cassio Dione sta parlando di un ginnasio, non di terme, e come tale l’edificio a cui lui si riferisce non sono le terme imperiali. C’è chi argomenta che la Babilonia del Nuovo Testamento sia in realtà Roma, mascherata con il nome dell’antico persecutore ebraico per non incorrere in ulteriori guai; e Alessandro Manzoni ubicherà i suoi sposi nel regno Borbonico del ‘600, per evitare la censura ottocentesca del regno austriaco: ma questo modo di mascherare le cose o di chiamarle in modo diverso non significa assolutamente che ci si trovi di fronte a fatti diversi.

Continuando questo ragionamento, un altro esempio tratto dalla classicità: in nessun testo dell’antichità si menziona l’esistenza dei Mercati di Traiano (povero imperatore ispanico, sempre lui di mezzo!), eppure sono lì, fino a prova contraria… Una situazione che ha reso estremamente difficoltosa la loro interpretazione agli archeologi, che oggi sono giunti alla conclusione che pur essendone forse cominciata la costruzione sotto Domiziano, abbiano costituito un tutt’uno con il Foro di Traiano, ospitando le sue funzioni gestionali ed amministrative, ben lontane da quelle commerciali che originariamente diedero il nome moderno al complesso. Ma anche così, non è che si capisca come mai, il nucleo che oggi chiamiamo “Mercati di Traiano” non si rintracci in alcun modo nella letteratura antica, nonostante le sue eccezionali dimensioni e l’impegno costruttivo-ingegneristico che dovette richiedere. Chissà che non sia ricordato in qualche testo che è andato perduto, ma a ragionare così son bravi tutti.